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“Il tempo nella verifica dei risultati” secondo Emanuela…

Emanuela Del Pianto aveva scritto il testo che segue prevedendolo alla fine delle sue riflessioni sul tempo nel processo di formazione. Abbiamo scelto di dedicargli un articolo a parte, perché in realtà è una fase che Emanuela considerava sempre a valle di qualsiasi tipo di processo, che si trattasse di sviluppo, di formazione o di coaching.


Il tempo nella verifica dei risultati


Per quanto riguarda la “verifica dei risultati”, tanto è stato scritto e se n’è sempre parlato molto nel, più o meno vano, tentativo di tradurla in una fase misurabile, attraverso degli strumenti che rendano il più possibile oggettiva la misurazione del risultato dell’intervento di sviluppo.


La critica che, spesso, viene mossa dai partecipanti è quella di aver vissuto un’esperienza, magari anche molto bella, ma scollegata dalla realtà professionale operativa di tutti i giorni. Quindi, la sequenza di momenti vissuti perde di significato, a fronte della preoccupazione di un futuro uguale a prima, perché nulla cambierà. Esclamazioni come: “è stato bellissimo. Ma come lo posso mettere in pratica?” – oppure – “tanto adesso che ritorno, il mio capo mi impedirà di mettere in pratica quello che ho appreso”, e così via, accompagnano la fine di un qualcosa, lasciando l’amaro in bocca perché non si intravede il principio di qualcos’altro. È come entrare in una grotta oscura, dopo essere passati in un giardino fiorito e pieno di luce.


Per “verifica dei risultati” si intende sia la somministrazione di un questionario di fine corso, sia il monitoraggio del valore aggiunto dell’intervento di sviluppo, nella quotidianità dell’attività professionale successiva.


Per quanto riguarda il primo, viene somministrato “a caldo” al termine dell’ultima aula, ma anche se fosse ben costruito e strutturato presenta delle criticità. Per esempio, quella di fornire una percezione ancora permeata dall’esperienza vissuta, in termini di clima, di nozioni apprese, di strumenti e quant’altro. Il tempo si ferma, anzi si blocca. E diventa come una parentesi aperta, ma anche chiusa, della vita di tutti i giorni. Non c’è un divenire, e quindi non c’è la percezione di un futuro possibile.

Talvolta, questo strumento viene percepito come un dovere, richiesto dall’azienda, sul quale non occorre investire del tempo e, quindi, passato, presente e futuro si fondono per diventare un atto dovuto e sbrigativo, nel quale il tempo non ha senso, perché è rappresentato da un fare, senza che sia coinvolto l’essere. Altre volte ancora, viene preso sul serio e il partecipante si sofferma attentamente sui quesiti posti dal questionario e risponde sull’onda del percepito in quel momento, positivo se l’apprendimento e, soprattutto, la consapevolezza ha funzionato, negativo se tutto ciò non è avvenuto. Ma, quello che mi viene in mente, è che sono come bolle di sapone: bellissime quando vengono emesse, ma poi con un non nulla svaniscono e non ve n’è più traccia.


Il questionario di fine corso serve alla committenza e, quindi, all’azienda per capire se una serie di strumenti logistici hanno funzionato, ma soprattutto se ha funzionato il docente, e questo è comprensibile. Ma che conclusioni ne trae, in modo attendibile e oggettivo? Come al solito, dipende dalla soggettività di chi lo compila e, quindi, dalla sua percezione di un tempo e di uno stato, che si arrestano in quel momento e si riferiscono ad un passato recente.


Esiste un’altra forma di verifica, che può avvenire attraverso degli strumenti quali interviste, questionari, colloqui telefonici o video conferenze, con chi ha partecipato al corso ed è tornato all’operatività da un po’ di tempo. Con un po’ si intende, per esempio, due momenti di monitoraggio, ogni tre mesi ciascuno.

Lo scopo è quello di identificare, coinvolgendo le parti in causa: criticità e successi che hanno vissuto in seguito all’intervento di sviluppo; se e quanto hanno potuto applicare metodologie e strumenti appresi in quella sede.


Soprattutto le criticità possono diventare, per il formatore/consulente/coach [a seconda del tipo di intervento realizzato], una fonte di potenziale intervento migliorativo, una volta diagnosticati accuratamente tutti gli aspetti che la caratterizzano. Questo perché può trattarsi anche di “false criticità” collegate, invece, a uno stato d’animo disfattista o a una relazione non soddisfacente con il proprio capo o con i colleghi, ecc.... Per “false” non intendo qualcosa di “volutamente” tale, ma si tratta di problemi indipendenti dall’esperienza a cui ci si riferisce, che tuttavia necessitano sicuramente di altre tipologie d’interventi, più riferibili alla gestione interna.

Nel caso del monitoraggio e dal punto di vista dei fruitori, il tempo può assumere una valenza a tre dimensioni passato, presente e futuro, oppure a due soltanto (passato e futuro), a seconda dell’atteggiamento prevalente di chi ha vissuto l’esperienza.

Ad un atteggiamento positivo, in cui il desiderio di un sano cambiamento e, quindi, di una maggiore serenità prevale su un clima interno improntato al negativo e all’impossibile, corrisponde la consapevolezza del presente. Il passato ha regalato degli strumenti che, attraverso l’utilizzo nel presente, possono migliorare il futuro. Ma è sempre la persona che si dà, o non si dà, questa possibilità. Se prevale il sentimento di difficoltà, nei confronti di un esterno che “mina” e non ci si accorge che l’onda malsana nasce da dentro di noi, il passato e l’impossibile diventano la nostra gabbia.


Un valore aggiunto, a questa fase di monitoraggio, lo può dare un coinvolgimento attraverso gli strumenti già citati, anche dei “capi” delle persone. Lo scopo è quello di favorire una condivisione della responsabilità delle criticità, o dei successi, in cui possono incorrere i loro collaboratori. Ad esempio, se il capo è il primo a dire, più o meno esplicitamente, che la formazione [o il coaching] è una perdita di tempo, rende sicuramente più difficoltoso lo sforzo del collaboratore. Se, invece, apprezza e rinforza impegno e cambiamenti di quest’ultimo, condivide una “rotta” che, onda per onda, conduce verso un futuro, nel quale l’alternanza delle maree non impaurisce, ma incuriosisce.

Per quanto riguarda la valutazione dei risultati, effettuata attraverso quest’ultimo approccio, al committente, teoricamente, non può che far piacere che l’esito di un investimento economico, che lui ha fatto, si traduca in una diagnosi puntuale del successo o dell’insuccesso, o di tutti e due, dell’output.


In realtà, spesso accade che se l’investimento è stato dovuto unicamente a dei fondi residui (dei fondi sociali), la verifica dei risultati viene vista come una fase di ulteriore perdita di tempo. E, quindi, il tempo si disperde. Non ha futuro, ma solo un presente frettoloso per dimenticare un passato, in cui ha assunto l’impegno. È come un figlio illegittimo che ritorna al padre, che lo nega, ma questa negazione ne esalta da un lato la non-esistenza ma, paradossalmente, anche l’esistenza; è, quindi, un presente che nega se stesso.


Ma non sempre è così, per fortuna quando la committenza è convinta e la consulenza ha fatto un buon lavoro nella fase di analisi della domanda, la verifica dei risultati è una fase attendibile, reale e concretamente utile per i passi successivi e, quindi, legittima il futuro e i suoi “figli”.


Con questo articolo si conclude la raccolta delle riflessioni inedite di Emanuela Del Pianto sul tema del tempo, nei vari processi di gestione e sviluppo delle risorse umane. Forse avrà stimolato in ognuno di noi ulteriori riflessioni, oggi, o forse lo farà in futuro.

Ciò che conta per noi è aver tirato fuori da un “cassetto” le parole di Emanuela e aver avuto l’opportunità di condividerle con chi ha avuto il piacere di scoprirla e/o riscoprirla in queste parole.


NB: Le ulteriori riflessioni che Emanuela aveva maturato rispetto al “tempo nel coaching” sono rintracciabili nel testo La Potenza del coaching, 2017

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